Parvovirus B19: qual è la rilevanza in medicina trasfusionale?

Il parvovirus B19 (B19V) è stato scoperto nel 1975. Al momento della scoperta non era ancora nota l’associazione tra questo agente eziologico e una malattia esantematica piuttosto innocua tipica dell’infanzia, la cosiddetta “quinta malattia”. A causa della trasmissione virale dell’infezione attraverso i droplets, molte infezioni si verificano nei bambini che passano molto tempo a stretto contatto tra loro, e mentre la percentuale di anticorpi contro il B19V, indice di pregressa infezione, è rilevabile solo nel 2% dei bambini più piccoli sotto i 5 anni, questa cresce all’aumentare dell’età attestandosi intorno al 21% nei bambini tra  i 5 e i 9 anni, al 36% negli adolescenti tra i 10 e i 19 anni e al 49% negli adulti, tra i 20 e i 39 anni.

Dal nostro studio è emerso come la sieroprevalenza sia diversa nei diversi Paesi considerati, posizionandosi tra il 9,78 e il 79,1%. Tali macroscopiche differenze oltre a dipendere dall’area geografica in cui le indagini sono state effettuate, dipendono dal differente numero di donatori indagati e dalle diverse sensibilità dei test anticorpali utilizzati.

Ritenendo che circa il 72% (o un po ‘meno) di tutti i donatori di sangue siano immunizzati contro il B19V grazie alla presenza di anticorpi formati in seguito ad un’infezione da B19V pregressa, i rimanenti donatori che risultano privi di questi anticorpi sono in un qualsiasi momento della loro vita suscettibili per un’infezione da B19V. Poiché l’infezione acuta è spesso asintomatica, specialmente negli adulti, i donatori di sangue colpiti spesso non sono malati, non si accorgono quindi di aver contratto un virus e quindi possono tranquillamente donare il loro sangue. In questo modo può accadere di prelevare donazioni viremiche, che possono però essere evidenziate grazie al rilevamento del DNA del B19V nel plasma mediante il test dell’acido nucleico (NAT). Negli ultimi anni, grazie ai nuovi standard internazionali impiegati, è diventato comune esprimere la carica virale presente in un campione di sangue dalla quantità di DNA di B19V rilevato in “Unità internazionali per millilitro (UI / ml)”.

Poiché il B19V colpisce le cellule precursori degli eritrociti e dei megacariociti, nei donatori di sangue è facilmente riscontrabile una variazione patologica dell’emocromo, con presenza di anemia e piastrinopenia, già descritte dopo indagini sperimentali in un piccolo numero di soggetti sani. Il B19V infetta le cellule progenitrici eritrocitarie e, quindi, un’infezione acuta da B19V in pazienti con un elevato turnover eritrocitario può portare ad una crisi aplastica pericolosa per la vita, mentre le donne in gravidanza con un’infezione acuta possono trasmettere il B19V al feto, con conseguente idrope fetale e quindi morte fetale.

Il decorso della viremia durante l’infezione da B19V nei donatori di sangue è stato ben studiato, e i risultati di un primo studio a riguardo hanno portato alla conclusione che la viremia viene rapidamente eliminata in individui con un’infezione acuta, se presentano un sistema immunitario non compromesso. Tuttavia, il metodo utilizzato all’epoca per rilevare il DNA di B19V era meno sensibile rispetto ai metodi attualmente utilizzati nello screening del donatore di sangue. In studi più recenti, la concentrazione di DNA di B19V viene misurata nel plasma mediante NAT, ma nonostante l’uso di metodi più sensibili per il rilevamento del DNA di B19V, fino all’inizio dell’ultimo decennio, la viremia nell’infezione acuta da B19V era considerata un fenomeno piuttosto breve, che durava solo poche settimane. La durata media della viremia nei donatori di sangue era stata infatti stimata in 17,5 giorni (IC 95% 11,0-53,0). La persistenza del virus o le infezioni croniche sono state considerate come estremamente rare e una viremia di lunga durata come un fenomeno limitato ad individui gravemente malati o immunocompromessi piuttosto che ai donatori di sangue. Circa il 30% dei potenziali donatori di sangue a partire da un’età di 18 anni non ha anticorpi contro il B19V e sono quindi suscettibili di nuove infezioni da B19V. Tuttavia, in molti adulti, l’infezione da B19V passa inosservata e quindi molti donatori di sangue donano sangue ugualmente. L’infezione da B19V non altera la conta delle cellule del sangue nei donatori di sangue sani, ma dopo che un’infezione acuta contratta con concentrazioni di DNA virale estremamente elevate, superiori a 1010 UI, è risolta, il DNA di B19V persiste nel plasma a livelli bassi per diversi anni. In questo modo, molte successive donazioni contenenti il DNA del B19V possono essere prelevate da un singolo donatore. Sembra comunque che la maggior parte dei prodotti emoderivati che presentano il DNA di B19V non siano  causa di infezione nei riceventi per diversi motivi: 1) molti riceventi hanno contratto in passato una infezione da B19V e hanno quindi formato anticorpi protettivi; 2) la concentrazione di DNA di B19V negli emoderivati è spesso troppo bassa per poter infettare il ricevente; 3) dopo l’infezione acuta, la presenza di DNA di B19V nel plasma del donatore è accompagnata da anticorpi presumibilmente neutralizzanti che sono protettivi anche per il ricevente.

Pertanto, le infezioni da B19V trasmesse mediante trasfusione (TT-) sono estremamente rare. Inoltre, nella maggior parte dei donatori di sangue, la concentrazione di DNA di B19V presente nel plasma è inferiore alle 1.000 UI/ ml e nessuna infezione TT-B19V è stata mai segnalata in presenza di una così bassa viremia. Il cutoff indispensabile a determinare il rischio infettivo da B19V utilizzato nei test per lo screening dei donatori di sangue dovrebbe pertanto essere di circa 1.000 UI/ml di DNA virale, se viene considerato uno screening generale dei donatori di sangue per i singoli componenti di sangue donato: per la stragrande maggioranza di chi riceve trasfusioni di emoderivati infatti, l’infezione da B19V non è così rilevante come può invece esserlo per i donatori di sangue.

Quindi, per proteggere i riceventi dall’infezione da TT-B19V, un altro approccio, diverso dal classico screening generale del donatore di sangue, è quello di generare una maggiore consapevolezza nei medici riguardo la possibilità sempre presente di infezioni da TT-B19V. Particolari gruppi di pazienti che possono presentare un maggior rischio per un’infezione grave  da B19V (ad es. donne incinte, pazienti immunosoppressi, pazienti con elevato turnover eritrocitario) devono essere pertanto attentamente monitorati al fine di riconoscere immediatamente i sintomi correlati ad un’infezione da B19V post-trasfusionale ed eventualmente possono essere sottoposti ad un’analisi mediante NAT per essere certi della presenza o meno di un’infezione virale in atto.


Front Med (Lausanne). 2018 Feb

Parvovirus B19: What Is the Relevance in Transfusion Medicine?

SaJuhl D, Hennig H.