La diagnosi di malattia cronica, come l’Emofilia, nell’infanzia può causare uno stravolgimento del concetto di normalità e salute, fino a quel momento appreso, portando con sé vissuti di disorientamento, paura per il futuro, disperazione ed impotenza tra i vari membri della famiglia.
La malattia può comportare sfide sempre nuove riconducibili alle specifiche peculiarità della diagnosi, al decorso della patologia e alla fase evolutiva del bambino; tra queste sfide, assume rilevanza la ricerca di soluzioni per proteggere il proprio figlio da una sofferenza fisica ed emotiva difficile da comprendere e da accettare (CNOP, 2019; Perrin et al. 2012). La condizione di cronicità può avere ripercussioni sulle diverse dimensioni della vita quotidiana del bambino/ragazzo e della famiglia: la socializzazione con i pari può essere ostacolata dalla presenza di limiti imposti dalla malattia nella frequenza di attività e da vissuti di isolamento, passività ed estraneità percepita a causa della propria condizione. Anche la frequenza scolastica talvolta è minata dalla sofferenza sintomatologica e dalla necessità di frequenti accessi ospedalieri; quest’ ultimo aspetto assume un ulteriore significato psicologico dal momento che, soprattutto nelle fasi iniziali, l’ambiente ospedaliero può essere vissuto come sconosciuto e altamente minaccioso per la propria integrità con conseguente disagio emotivo (CNOP, 2019; Perrin et al., 2012; Thompson et al., 2011). Tali aspetti hanno un impatto diretto sull’organizzazione familiare vista la costante necessità dei genitori di riadattare la routine familiare e lavorativa intorno alle richieste, talvolta imprevedibili, e le alle necessità di cura del figlio. I bambini e ragazzi con emofilia possono presentare una maggiore comorbidità con problematiche psicologiche (Perrin et al., 2012). La malattia può difatti esporre il bambino o ragazzo ad un’intensa sofferenza emotiva legata sia alla condizione fisica sperimentata, e al trattamento terapeutico, sia alle limitazioni funzionali, talvolta imposte dalla malattia, talvolta frutto di vissuti di paura e rassegnazione passiva alla propria condizione (CNOP, 2019). Sono comuni sentimenti di colpa e vissuti di paura, spesso legati ad una parziale rappresentazione della malattia e delle sue cause, e ad una percezione di sopraffazione ed incapacità nel fronteggiamento. Inoltre tra i sintomi psicologici è possibile rilevare ridotta autostima, depressione, problemi comportamentali, e difficoltà nel sonno con conseguenze nella gestione delle attività quotidiane (Perrin et al., 2012; Pinquart e Shen, 2010). In particolare la fase adolescenziale presenta caratteristiche peculiari dal momento che i ragazzi si trovano a dover fronteggiare ed instaurare un equilibrio tra la dipendenza, talvolta necessaria a causa dei limiti imposti dalla malattia, e il bisogno di autonomia insito in questa fase evolutiva (Thompson et al., 2011).L’ adolescente tipicamente sperimenta il bisogno di sviluppare la propria identità facendo maggiore riferimento al confronto e supporto dei pari ed incrementando l’autonomia decisionale; in alcune circostanze pertanto il ragazzo con una storia di malattia cronica può ritrovarsi in una palestra di vita mai esplorata prima di allora a causa dei limiti imposti dalla malattia. In questa fascia di età cambia anche la percezione ed il rapporto con il proprio corpo e questo può comportare il riaffiorare di difficoltà nell’accettazione di eventuali segni fisici della malattia e della fragilità percepita (Thomson et al., 2011). Tutto questo può portare all’adozione di strategie di coping disfunzionali, come la resistenza terapeutica, oppositività rispetto al nucleo familiare, associato di contro a difficoltà nell’esporre e condividere la propria sofferenza per vergogna o timore di giudizio e incomprensione. Anche i genitori possono sperimentare difficoltà emotive, in particolare vissuti di colpa e ansia rispetto al malessere del figlio; inoltre spesso si ritrovano a dover fronteggiare elevati livelli di stress legati alla ricerca di un nuovo equilibrio tra il ruolo genitoriale ridefinito e le richieste dell’ambiente sociale, con conseguente senso di sopraffazione. Ad oggi è, inoltre, sempre maggiore l’attenzione posta nei confronti dei fratelli di bambini con malattie croniche, come nel caso dell’emofilia in considerazione dell’impatto della patologia anche sulla loro traiettoria di sviluppo che può assumere diverse sfaccettature in termini di responsabilizzazione, vissuti di trascuratezza, o di contro resilienza e sviluppo di fattori protettivi. Al riguardo è importante la presenza di risorse esterne che possano favorire un maggior senso di padroneggiamento e controllo della situazione ed un minor livello di sopraffazione percepito (Perrin et al., 2012; Thompson et al., 2011). Tuttavia per comprendere l’esperienza psicologica associata alla cronicità è importante considerare una serie di aspetti e fattori specifici della malattia come i segni e sintomi, la fase e l’età della diagnosi, la gravità e durata, e la necessità di terapie più o meno invasive; a questi si associano aspetti psicosociali quali il genere, la visibilità dei segni di malattia e i limiti funzionali strettamente correlati (Thomas et al.,2019; Thompson et al., 2011). In generale sembrerebbe che la presenza di più fattori comporti una maggiore sofferenza psicologica (Pinquart e Shen, 2010) e che la presenza di sintomi dolorosi e disabilità sia maggiormente associata ad una più intensa sofferenza psicologica (Cohen et al., 2017). Come prima enunciato, è importante considerare il momento della diagnosi, inquadrandolo nella specifica fase evolutiva del bambino o ragazzo; difatti, laddove la diagnosi emerga nei primi anni di vita, il bambino può integrare in maniera quasi naturale la malattia nel proprio assetto di sviluppo e nella rappresentazione di sé, senza percepire ostacoli o limiti in attività mai effettivamente fronteggiate; di contro un possibile rischio consiste nello sviluppo di un’immagine di sé malata e fragile e sovrapponibile all’etichetta diagnostica. Laddove la diagnosi sia ricevuta a partire dall’età scolare, i bambini possono sperimentare una rottura con la vita passata, e precedente alla malattia, ed un senso di perdita della propria identità sana con conseguente rassegnazione passiva, talvolta distorta, alla nuova condizione di vita improntata a limiti e difficoltà (Thompson et al., 2011). Tali esiti sono strettamente legati alla rappresentazione della malattia che risulta dipendente dallo stadio evolutivo del bambino o ragazzo. Per rappresentazione della malattia si intende l’insieme delle credenze sulla salute che influenzano l’impatto emotivo, il sentimento di controllo percepito, l’uso di strategie di coping e di conseguenza l’adattamento alla condizione clinica e l’aderenza terapeutica (Verhoof et al.,2014; Perrin et al., 2012). Bambini molto piccoli presentano una scarsa comprensione della propria condizione e in alcuni casi, a partire dall’età scolare, possono presentare una parziale e talvolta distorta rappresentazione della malattia, per esempio associando la propria sofferenza ad una punizione per i propri errori o comportamenti. In età adolescenziale i ragazzi iniziano ad acquisire una più raffinata conoscenza sul funzionamento del corpo umano e sull’eziopatogenesi della propria sofferenza (Thompson et al., 2011). Risulta evidente come, soprattutto nei primi anni di vita, l’esperienza di malattia e gli esiti sullo sviluppo del bambino siano mediati anche alla rappresentazione genitoriale del figlio: tale rappresentazione difatti influenza le modalità di accudimento del genitore e il conseguente sviluppo del legame di attaccamento nella diade (Cassibba, 2003; Bowlby, 1973): la relazione di attaccamento, strettamente legata alla sensibilità e responsività genitoriale rispetto ai bisogni del bambino, costituisce la base relazionale per lo sviluppo dei modelli operativi interni, intesi come rappresentazioni mentali attraverso cui il bambino imparerà a guardare se stesso, gli altri e ad orientarsi nel mondo (Cassibba, 2003; Bowlby, 1973). In generale lo stile di attaccamento può avere un impatto sullo sviluppo della personalità del bambino, sulle capacità di autoregolazione emotiva e sul senso di autoefficacia ed autodeterminazione percepita (Cassibba, 2003). Tra i comportamenti mediati dallo stato mentale del genitore, e implicati nello sviluppo delle rappresentazioni di sé del bambino con patologia cronica, si possono considerare per esempio l’espressività emotiva nel nucleo, la disponibilità e responsività alle richieste emotive e di accudimento del bambino, i comportamenti di sollecitudine ed iperprotezione genitoriale o di contro la promozione dell’autonomia con conseguente impatto sul modo in cui il bambino imparerà a destreggiarsi nel mondo relazionale con e nonostante la malattia (Law et al., 2019; Cassibba, 2003).
In considerazione di quanto emerso, si rileva l’utilità ed importanza, di un lavoro psicologico sistematico ed integrato con le altre professionalità coinvolte nel processo di cura di bambini e ragazzi con cronicità. Al riguardo la comunità scientifica suggerisce l’utilità dell’approccio cognitivo comportamentale nel promuovere la gestione dei sintomi fisici correlati alla malattia, l’aderenza terapeutica, l’adattamento psicosociale e la qualità di vita in bambini e ragazzi con malattie croniche pediatriche e nelle famiglie (Eccleston et al., 2015). L’applicazione dell’intervento cognitivo comportamentale nella cronicità pediatrica parte dall’assunto che la sofferenza psicologica possa originarsi dagli schemi attraverso cui si interpreta la realtà circostante, sviluppatisi nel corso dello sviluppo ed in particolare nelle relazioni affettivamente significative. Nello specifico, bambini e ragazzi con patologie mediche, possono costruire tali schemi in un contesto di sofferenza fisica e di limitazione funzionale e sociale che può influenzare in modo più o meno rilevante la rappresentazione di sé e del mondo. L’intervento cognitivo comportamentale mira in tal caso ad esplorare eventuali credenze patogene, non del tutto rappresentative delle reali possibilità ed opportunità al di là della malattia, e intraprendere un processo di scoperta guidata attraverso interventi di individuazione delle credenze disfunzionali per il proprio benessere, di ristrutturazione cognitiva, sviluppo di interpretazioni alternative ed esposizione (Thompson et al., 2011). Un aspetto importante di intervento consiste nello sviluppo di strategie di coping adattive che risultano strettamente legate alla rappresentazione della malattia. Al riguardo è stata mostrata l’efficacia di interventi di gruppo, rivolti a minori con patologie croniche e ai genitori, finalizzati alla prevenzione di problematiche internalizzanti ed esternalizzanti attraverso lo sviluppo di funzionali strategie di coping, ritenute importanti mediatori del benessere psicologico correlato alla cronicità. Nello specifico sono stati implementati interventi al fine di promuovere la ricerca attiva di informazioni, per acquisire una maggiore consapevolezza della malattia, tecniche di rilassamento, uso di autoistruzioni positive, incremento delle capacità sociali (Scholten et al., 2013). Coerentemente, l’intervento con i genitori dovrebbe orientarsi nel favorire una maggiore comprensione e sintonizzazione con i bisogni emotivi del figlio e nel promuovere l’uso di strategie di coping funzionali alla gestione della malattia che possano favorire un maggiore senso di padroneggiamento ed autoefficacia percepita (Thompson et al., 2011; Law et al.,2019). In generale la letteratura suggerisce l’efficacia dell’intervento cognitivo comportamentale nel promuovere la qualità di vita e l’aderenza terapeutica nella cronicità pediatrica. Sono però necessari futuri studi per l’implementazione e valutazione di efficacia dell’intervento cognitivo comportamentale nelle diverse condizioni croniche pediatriche, in considerazione delle specificità evidenziate. Sarebbe auspicabile inoltre, lo sviluppo di futuri studi scientifici che superino eventuali limiti metodologici legati ad esempio al campionamento, alla diversità degli strumenti utilizzati, e che mostrino l’efficacia anche in termini di riduzione di costi sanitari e incremento della qualità di vita percepita oltre la malattia (Thompson et al., 2011).
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